domenica, febbraio 25, 2007

Darkel Star

In attesa del nuovo disco degli Air – ormai imminente – recupero DARKEL, prima opera (e primo progetto) solista di Jean Benoit Dunckel, vale dire metà del duo di Versailles. Jean Benoit si diverte a scrivere melodie, come sempre, aeree, aggiungendovi però qua e là un tocco oscuro, leggermente più straniante del solito. DARKEL, in ogni caso, è tutt’altro che un disco di seconde scelte: si apre con Be My Friend, french touch purissimo ma come filtrato da echi orrorifici, tra le tastiere anni ’80 del primo Carpenter e le progressioni di Profondo rosso. E poi si continua viaggiando tra cristalline aperture di pop caramelloso, quasi alla Beatles (At the End of the Sky, la saltellante My Own Sun), una urticante fiammata di glam elettrico, tra il primo Bowie e i T-Rex (TV destroy, attraversata da un synth in pieno trip da sovraccarico neuronale), un’inarrestabile apertura robotica che mette in incubatrice onde funk e morbide macchine kraut (Hearth). Ma DARKEL sa anche soffermarsi su spazi più meditativi, come nella filastrocca elettronica da occhi stropicciati di How Brave You Are o nella finale, fatata, Bathroom Spirit. Imperdibile, e non solo per i devoti degli Air.

lunedì, febbraio 19, 2007

Pezzi di Saggezza

Udine, Innovaction, Process Space. Arriva Andrea Pezzi, per un incontro con il pubblico. Dolcevita sotto giacca scura, occhiali sulla fronte, decisamente alta. Pezzi è bello, dal vivo ancora di più. Occhi verdi e un po’ acquosi, barba di tre giorni regolata ad arte. Ha le palle girate e lo fa sapere a tutti. Al mattino ha moderato un incontro con alcuni guru dell’innovazione, tra cui Oliviero Toscani, e la cosa lo ha fatto incazzare. Avrebbe voluto dire delle cose, le dice ora, davanti a un pubblico ristretto di curiosi. Il bell’Andrea, aria di uomo che ne ha viste di cotte e di crude, inizia la sua lezione su come si sta al mondo. Ignora bellamente le domande dei due intervistatori, parte per la tangente, va in modalità maestro di vita. Si scatena in un name dropping filosofico ridicolo e fuori luogo: Husserl, Wundt, i grandi umanisti italiani, quel coglione di Freud. Vuol far vedere che ha letto i libri giusti, che è stanco di passare per “quello di MTV”. Dice che per anni ha fatto finta di essere più scemo di quel che è in realtà. Lo hanno costretto a farlo (e i soldi che ha preso per questo, dove li mette?) ma ora ce la fa vedere lui: non esiste la massa intelligente, esiste solo l’individuo. Internet e Wikipedia sono una stronzata, l’intelligenza collettiva non esiste. Il ‘68 una tragedia, gli americani superficiali (originale!) Della vita non si può parlare se non si è dei maestri. Lui non lo è, quindi non si permetterebbe mai. Però parla, parla solo lui, giudica tutto e tutti, apre squarci di paranoia esistenziale e mal di vivere. Cita Gesù Cristo e Nietzsche (sempre più originale). Non dice superuomo, forse fa troppo Marvel e MTV per lui. Dice Oltreuomo, perché ha una cultura europea (ma chi glielo dice che lo scriveva già Vattimo trent’anni fa?). Poi si capisce tutto: lui in fondo un maestro lo ha incontrato. È Meneghetti, guru dell’ontopsicologia (provate a digitare Pezzi Ontopsicologia, poi fateci sapere cosa avete trovato), uno che ha ricevuto una laurea honoris causa per la scoperta del “campo semantico” e che ha subito un bel po’ di processi. Uno grande quasi come Mamma Ebe. L’uomo che gli ha cambiato la vita. Allora si capisce che molte delle cose che cita per zittire gli altri sono probabilmente letture di seconda mano, orecchiate in giro, saperi segreti rivelatigli dal Maestro e preclusi a noi comuni mortali, che non possiamo pagarci la scorciatoia per diventare mâitre a penser andandocene a San Pietroburgo. Svelato l’arcano, Pezzi gioca a carte scoperte. Il monologo assume contorni deliranti e messianici; taglia corto con il dibattito, dato che l’interazione a lui non interessa gran che. Si alza e tanti saluti. Come Kaiser Soze alla fine dei soliti sospetti Andrea Pezzi, Luciferino, scivola via e scompare. Come se un invisibilissimo sciacquone lo avesse portato via, lontano da noi, in un universo più buono e giusto, ontopsicologico, in cui lui non è solo un ex vj di MTV.

lunedì, febbraio 12, 2007

Il ritorno di Mickey Rooney

Per gli americani Mickey Rooney (classe 1920) è per sempre l’adolescente dei film anni ‘30, ragazzo prodigio del muto prima e in seguito protagonista della serie degli svagati film di Andy Hardy. Rooney nanerottolo con la faccia da irlandese (in realtà è di origine scozzese), innocuo rubacuori dell’America incantata prima della seconda guerra mondiale in un mondo alla Norman Rockwell, fatto di valori semplici e genuini come la torta di mele. Insomma, Rooney è stato icona del cinema hollywoodiano sognante e assolutamente cazzone, quello del disimpegno alla buona e dei bravi ragazzi che incarnano l’ottimismo a stelle e strisce. Ora ritorna sul grande schermo in una parte tagliata su misura per lui nello strampalato Una Notte al museo, dove, invecchiato e sfatto ma con un sano lampo di follia negli occhi, fa la parte di un custode dall’uppercut facile, irlandese e rissoso fino al midollo. E il film è degno di lui: divertimento per famiglie che pare uscire dalla Hollywood dei tempi d’oro, quella delle commedie senza parolacce e con il lieto fine garantito, a metà tra Frank Capra e gli eroi in diretta dal Radio City Music Hall, immortalati da Woody Allen in Radio Days. Insomma il piccolo Mickey mette il suo sigillo su un film tipicamente neoclassico, autentico gioiello anni ‘40 (con il medioriente al posto dei musi gialli e dei crucchi?), ottimo per passare un paio d’ore in allegria. Chiudo con una curiosità: Rooney era apparso in versione animata in una puntata dei Simpson (quella del film sull’Uomo Radioattivo): la sua impronta nella storia dell’animazione l’aveva però forse già messa. Narra la leggenda che un certo Walt Disney al momento di dare il nome a un topo destinato a divenire celebre avesse in mente proprio Rooney, da cui il nome Mickey. In realtà questa storia pare averla messa in giro il diretto interessato, quindi non è affidabile al 100%. Un dato inoppugnabile della vita di Rooney comunque rimane: i suoi otto matrimoni, di cui uno con la divina Ava Gardner. Basterebbe questo a garantirgli un posto nel mito.

venerdì, febbraio 02, 2007

Non proprio tutti gli uomini del presidente

A Matteo Bordone piace tanto West Wing. A me invece no. Ci sono vari fattori che determinano questa mia avversione, peraltro abbastanza blanda, verso la serie americana. Il motivo principale è sicuramente l'irrealtà che pervade tutto il telefilm. Come diceva il pallanuotista Michele Apicella, la gente non parla così. Il linguaggio usato è assurdo, tutti parlano ad una velocità pazzesca e con un'arguzia degna del Dottor Sottile o dell'Andreotti Ter. A partire dal democraticissimo presidente Martin Sheen, passando per la bordoniana Mary-Louise Parker, fino allo spazzacamino, per le sale della casa bianca si aggirano personaggi troppo finti. La realtà di questi tempi, come ho avuto già modo di dire in un altro post, è fin troppo lontana dalla finzione televisiva. Ma chi se lo immagina un Cheney a discutere con Rob Lowe per decidere il contenuto del discorso sullo Stato dell'Unione? Altro che il bel Rob, per mettere KO Dick il tramaccione basta Molly Ringwald (per restare nel Brat-Pack).
Il fatto è che West Wing vuol parlare del mondo che ci circonda da un punto di vista troppo elevato. West Wing ha avuto la s/fortuna di andare in onda a cavallo dell 11 settembre: George W. Bush, che rischiava di passare alla storia come un innocuo presidente idiota, è stato trasformato in un solo giorno in un pericoloso presidente idiota. In pochi mesi ci siamo accorti che il mondo è in mano ad un gruppetto ben equipaggiato di mentecatti. Come posso dar credito ad una visione della politica, e degli uomini che fanno la politica, come quella descritta in West Wing? Una visione in cui la più grossa macchia morale è lo spergiuro? Rumsfeld e Cheney erano così invischiati nelle lobby di petrolio e farmaci che perfino la Gabanelli dall'Italia se ne è accorta. West Wing, a differenza di quello che molti pensano, è la giustificazione, o meglio, la visione utopistica a cui gli stessi americani aspirano, della politica statunitense post 11/9: "nel mondo succedono brutte cose, noi americani cerchiamo di sistemarle a modo nostro. Ne abbiamo il diritto perchè possediamo intrinsecamente una moralità ed un senso della giustizia che gli altri non hanno". Se si guarda al panorama delle serie americane West Wing è la mente, JAG è il braccio.
Tralasciando queste elucubrazioni psychoideologiche personali, devo dire che forse il vero motivo per cui non apprezzo West Wing è stata la lettura di un articolo dedicato ai telefilm su un numero di Internazionale di qualche anno fa. In un intervista uno degli sceneggiatori della serie ammetteva candidamente che nella storia venivano volutamente lasciati dei buchi narrativi delle dimensioni del Grand Canyon in modo che il pubblico non riuscisse ad avere un riferimento lineare nella trama e si concentrasse di più sui personaggi. MA COME??? Già mi sento abbastanza stupido di mio quando non capisco di che cosa parlano e poi scopro che in realtà non lo sanno neanche loro???? Bastardi. Comunque l'idea è bella.