Il Medio è il messaggio
Caro duffo, rispondo al tuo post del 17 gennaio. Il fatto è che il criterio alto/basso è privo di senso. Credo sia un retaggio della cultura di sinistra del dopoguerra. Gran parte delle cose che piacevano nel settecento o nell'ottocento erano "letteratura bassa" o "arte bassa". Mozart era un musicista pop, secondo i canoni odierni. Shakespeare era uno Spielberg elisabettiano, che faceva cose che piacevano al pubblico, non certo Beckett. Era un uomo di palcoscenico che si guadagnava il pane senza sovvenzioni e senza terze pagine dei giornali, non uno che voleva "trasmettere un messaggio" ed entrare nei salotti giusti. L’unicità del genio è la sua capacità di toccare corde universali a prescindere dal messaggio. Oggi abbiamo un sacco di comunicatori di messaggi, con l’assegno in mano, l’agendina piena di nomi che contano e una buona capacità tecnica, ma nessuno che ci sentiremmo di mettere accanto ai grandi del passato. Altro che alto e basso, siamo nell’età di mezzo, nel regno della mediocrità generalizzata. Infatti chi stabilisce il bene e il male? Chi scrive sui giornali, nel regno del compromesso, delle amicizie e della scrittura “media”. Anche nel senso dei mass media: come diceva McLuhan, il medium è il messaggio. Potremmo dire che il medio (-cre) è il messaggio. Tra l'altro è proprio l'idea di comunicare un messaggio che ti frega: che messaggio devo comunicare per fare arte “alta”? Se comunichi il messaggio pace e giustizia sociale va bene, ma se comunichi il messaggio “godiamoci la vita”, non va più bene. Ecco allora che ci troviamo con l’ennesimo polpettone storico politico di Ken Loach che è “solo” messaggio ma si dimentica del cinema e magari abbiamo film “leggeri” ma piacevoli che vengono snobbati perché non sono cinema serio. Non esiste comunicazione senza un significato, sono le nostre interpretazioni che stabiliscono dei criteri di valore. Dickens era più simile a Stephen King o ad Ammaniti che a uno scrittore "alto". Uno potrebbe dire: certo, ma Dickens era diverso dagli altri scrittori popolari dell'ottocento. È vero, ma solo secondo i nostri criteri. Al tempo, forse, quello che leggeva Dickens o Balzac in dispense leggeva anche la bibliotheque blue o altre cose che adesso faremmo rientrare nel calderone del "popolare" o addirittura del "pulp". Questo criterio però ha il fiato corto. Hai visto infatti quello che succede. Dopo che per decenni l’intellettuale ha indossato il saio dell’impegno e dell’egemonia gramsciana, ora può finalmente dire che La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca o che Proust è noioso o che Arbasino è un paraculo. E può confessare che in realtà, tra una serata d’impegno e l’altra si è visto i film di Boldi e De Sica. Il problema, però, è che non si tirano le somme di questo discorso. Non posso accettare che un cretino che negli anni settanta leggeva solo Marx e guardava Wim Wenders ora ci dica quello che è bello e quello che è brutto. Non basta rovesciare alto e basso, occorre togliere di torno certi personaggi che vanno dove li porta il vento e ogni volta si rifanno una verginità. A tutti loro, il (dito) medio è il messaggio. Cioè un bel vaffanculo.