giovedì, dicembre 28, 2006

Fino all'ultima illusione

Tre sono le fasi della magia. Il prologo, in cui una situazione viene presentata nella sua apparente normalità; il rovesciamento, in cui all’improvviso la meraviglia si manifesta sotto forma di colpo di scena (la colomba sparisce, il coniglio appare dal cilindro, la donna viene tagliata in due). Infine, il prestigio, il momento in cui quello che si pensava sparito o danneggiato irrimediabilmente viene fatto riapparire. Il gioco di prestigio, quindi, si basa sulla capacità di ingannare i sensi. È un effetto ottico che diventa più potente nel momento stesso in cui viene mostrata la sua natura di illusione. In realtà, è l’unica situazione in cui il pubblico si aspetta di non veder succedere niente. Più grande è lo scarto tra quello che sembra accadere e quello che realmente (non) accade, più lo spettacolo sarà riuscito. L’importante, però, è non svelare fino in fondo il segreto della magia. Un illusionista che cede il suo segreto a un altro, è finito. Chris Nolan ama i film complicati in cui la linearità della storia si frantuma in una serie di piccoli fiumi di racconto che contengono al loro interno la chiave per rimetterli assieme. Memento, ad esempio, era costruito come un continuo slittamento di sequenze di ricordi che il protagonista – affetto da una forma di amnesia - doveva ricomporre. Il nuovo The Prestige, tra flashback e colpi di scena, racconta lo scontro senza esclusione di colpi tra due maghi rivali nella Londra di fine ottocento. Tutto ruota attorno al rapporto tra realtà e illusione: è possibile che ci siano due esseri umani uguali? Due cose identiche sono la stessa cosa? In un’epoca di effetti numerici e di blockbuster tecnologici, il regista assomiglia di più a uno scienziato o a un mago? The Prestige ci mette la soluzione sotto il naso facendoci guardare dall’altra parte. Di fronte all’evento più bizzarro, se togliamo l’impossibile, rimane il reale, per quanto improbabile possa essere (lo diceva Holmes, se non sbaglio). Non svelo i colpi di scena finali, ma segnalo le ottime prove di Christian Bale e Hugh Jackman, affiancati dal solito grande Michael Caine e da David Bowie nei panni mefistofelici dello scienziato elettrico Nikola Tesla.

giovedì, dicembre 14, 2006

Le tessere del domino

Paola Maugeri non c'è più. O meglio, c'è ma è come se non ci fosse. La sua resistibile ascesa nei palinsesti di MTV l'ha portata in breve tempo a passare dai pomeriggi giovanilistici di Select alle prime serate monografiche di A night with, per poi passare alla seconda serata con Brand new, una trasmissione che sembrava fatta su misura per lei. Tanta musica, tante chiacchiere e un sacco di ospiti stranieri per mostrare quanto è brava con l'inglese. Non so cosa sia successo, se qualcosa è successo, fatto sta che la povera Paola non si è fermata neanche sta volta ed ha ricominciato il suo peregrinare nel palinsesto televisivo verso un destino che probabilmente la porterà a condurre, tra qualche anno, Unomattina o qualche lezione universitaria del progetto Nettuno. Paola se ne è andata da MTV per approdare a la7 dove conduce 25a ora - Il Cinema Espanso, un programma che parla di cinema mostrando, quando possibile, corti e documentari italiani.
Il titolo omaggia un film di Spike Lee ma richiama anche che l'orario da nottambuli in cui il programma va in onda, un orario assurdo come da tradizione per gli spazi dedicati al cinema nella televisione italiana. Dicevo che non so cosa sia successo nei corridoi paralleli dei canali tronchettiani, quale sia stata la prima tessera del domino a cadere, fatto sta che la venuta a 25a ora della Maugeri, che di cinema ne sa come mia nonna alle prese con l'installazione di una scheda di rete su un sistema linux, ha comportato la partenza del precedente conduttore, l'ottimo critico Steve Della Casa. Il colmabile vuoto creatosi a Brand New è stato riempito da una faccia televisivamente nuova, il tatuato regista Alex Infascelli, regista cinematografico e di video musicali, che presenta con finta svogliatezza come da tradizione del programma. Ora mi chiedo, ma non era meglio lasciare la Maugeri, in teoria esperta di musica, a Brand New e mettere Infascelli a 25a ora? E ancora. Con chi devo prendermela per aver dovuto assistere all'intervista di Luca Sofri che, sdraiatosi sul divano di pelle di Brand New, promuoveva la sua ultima faticaccia letteraria, una scopiazzatura malriuscita di Nick Hornby? Il principe ranocchio, folgorato sulla via del rock dall'iPod, si è lanciato poi in una dimenticabile generalizzazione degna di Guglielmo Giannini affermando che esiste la categoria precisa degli ipodders consistente in "trentenni, urbani, curiosi del mondo". Dopo una stronzata del genere con chi me la devo prendere? Con Infascelli? Con Steve Della Casa? Con Tronchetti Provera? Con la Maugeri certamente. E' lei la prima tessera del domino. Una di quelle senza numeri.

I Prescelti

Due film visti di recente al cinema: Il prescelto, remake di Wicker man, cult inglese di cui ho parlato qualche tempo fa, e Marie Antoinette, di Sofia Coppola, storia della regina di Francia arrivata dall’Austria giusto in tempo per farsi ghigliottinare. In realtà tutti e due i film parlano di “prescelti”. Il primo è un poliziotto con l’aria sfigatissima (Nicolas Cage) che arriva su un’isola in cui viene praticato uno strampalato e improbabile culto femminile delle api (!!!) per ritrovare una bambina misteriosamente scomparsa (oppure no). La seconda è una ragazzina che entra in un ambiente troppo grande per lei, vale a dire la reggia di Versailles, e deve imparare a vivere in mezzo ai rituali di un’etichetta assurda. Il Prescelto è un clone senza originalità, che ricalca l’originale introducendo qualche variazione inutile, tipo il prologo che dovrebbe essere simbolo non si capisce di cosa, e sostituendo il paganesimo simil celtico con rituali dementi e con un’idea (le api) che fa ridere. La suspense è pilotata in modo meccanico e le uniche scene che valgono sono quelle in cui il buon Cage, aria ebete e bocca sempre aperta, rifila qualche colpo di kung fu alle odiosissime donne api. Un film in cui la scena clou è quella in cui al protagonista viene uno shock anafilattico non è esattamente un capolavoro. Comunque 5 per la simpatia. Anche se la domanda sorge spontanea: perché a Hollywwod buttano milioni di dollari per film che trent’anni fa sarebbero stati al massimo buoni prodotti di serie b? Che i soldi facciano male al cinema?

Marie Antoinette può contare su una scenografia suggestiva (è stato girato nella vera reggia) e su una descrizione abbastanza accurata dei rituali e dell’ambiente. Kirsten Dunst è strepitosa e la colonna sonora new wave irresistibile. Purtroppo però la Coppola è una regista dozzinale ed è incapace di dare un ritmo al film e di sfruttare le doti della protagonista. Citazione per l’aria porca della Dunst nel manifesto del film: uno sguardo da porno svedese anni settanta. Dovendo dare un voto complessivo direi 6.

giovedì, dicembre 07, 2006

Regolare come el panetùn, arriva il natale...

Il clima natalizio impazza già da settembre in tv e adesso anche noi stiamo per finire affogati in un mare di panettoni, pandori e torroni. Mi chiedo, con l'inutilità che contraddistingue le mie domande retoriche, come può essere un natale al di fuori dei sacri confini, senza questi tesori nazionali? Senza l'uvetta, i canditi, lo zucchero a velo, l'appiccicume sulle mani, i cartoni della Bauli adattissimi a fare i caschi di Guerre Stellari, le cartoline del concorso Melegatti ecc. A pensare che a Londra, Parigi e New York non sanno cosa sia lo zampone provo immensa pena per loro e propongo una colletta per inviare derrate alimentari degne di un italico cenone.
Stranamente anche quest'anno natale porterà con sè diversi giorni di vacanza. Queste due settimane sono il periodo prediletto per gustarsi cioccolate amarissime e leggere qualche bel libro obbligatoriamente sdraitati. Visto il periodo, consiglio la lettura del Canto di Natale di Dickens. Evitate l'edizione Mondadori, tradotta a salti da Enrico Grazzi, e fatevi invece due risate leggendo l'edizione tradotta da Federigo Verdinois nel 1888 che potete trovare gratuitamente su LiberLiber. Basta stamparla.
Cambiando totalmente genere ed atmosfera, un altro libro che merita una letta è Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis che da vero inglese qual'era, scriveva libri pieni di humor, inglese naturalmente.
Per finire consiglio non uno bensì quattro libri di uno stesso autore: La guida galattica per autostoppisti, Il ristorante al termine dell'Universo, La vita, l'Universo e tutto quanto, Addio e grazie per tutto il pesce di quel gran genio che era Douglas Adams, inglese pure lui. Chi non lo conosce si fidi e legga tutto. Mi raccomando. Che tanto le vacanze sono lunghe e tra una fetta di pandoro ed un bicchiere di spumante di solito l'unica cosa che si riesce a fare bene a natale è ingrassare ed annoiarsi. Evitiamo almeno la seconda.

sabato, dicembre 02, 2006

Il labirinto del fauno

Spagna, 1944. Una Rolls Royce nera si infila su per una stradina di montagna, scortata da altre macchine che recano sulla porta delle minacciose insegne militari. A bordo della Rolls ci sono Mercedes, vedova da poco risposata con un ufficiale franchista, e Ofelia, sua figlia. Mercedes è incinta, Ofelia sta per incontrare per la prima volta il suo patrigno, che per lei sarà sempre e solo Il Capitano. Il capitano è un fanatico ossessionato dalla lotta contro la resistenza. Vive nel ricordo mitizzato di un padre eroe. È crudele e spietato. Quando c’è da torturare un prigioniero o da dare il colpo di grazia a un nemico ferito, ama occuparsi personalmente della faccenda. Per Ofelia l’unica via d’uscita da una realtà fatta di sangue e violenza è la fantasia. Quella dei suoi libri di fate. Quella che sembra sorgere all’improvviso davanti ai suoi occhi sotto forma di uno strano labirinto in mezzo al bosco. Seguendo il richiamo di bizzarri insetti-fata Ofelia scopre che al centro del labirinto, tra monoliti ricoperti di misteriose rune, vive un inquietante fauno. E che forse lei stessa è una principessa in esilio da un regno incantato. Il nuovo film di Guillermo Del Toro è sicuramente uno degli oggetti cinematografici più strani che potrete trovare in circolazione in questa fine anno. Il Labirinto del fauno corre lungo due binari paralleli: quello realistico, con la lotta fanatica del capitano contro la resistenza, tra battaglie e attentati in mezzo al bosco; quello fantastico, con il percorso iniziatico di Ofelia nel labirinto e con gli incontri di creature bizzarre e feroci (notevole il mostro senza occhi). In mezzo la visionarietà di Del Toro, che senza rinunciare ai suoi marchi di fabbrica (insetti come in Mimic, meccanismi a molla come in Cronos, intreccio Guerra civile/cinema horror come in La Spina del Diavolo, fascisti demoniaci come in Hellboy) crea il suo film più personale. Il tema è quello classico della fantasia come unica via di fuga di fronte all’orrore e alla tragedia della vita quotidiana. Solo che a differenza del cinema mainstream di questi anni, che sembra sempre più credere nel potere salvifico dell’immaginazione e della magia (pensiamo a Big Fish e a Neverland o a Narnia), Del Toro, da buon cattolico messicano, sembra dire che la fantasia è una via di fuga potentissima ma momentanea, e che la realtà, fatta di carne e sangue, sta sempre in agguato. Il corpulento Del Toro eccede un po’ in violenza e sangue, creando un film fuori genere: troppo fantastico e fatato per piacere ai fanatici dell’horror, troppo realistico e brutale per un pubblico che ama il fantasy, troppo scoppiato per piacere agli amanti del cinema realistico. Per questo si conferma uno dei nomi da seguire per chi ama i film visionari. Non un genio, ma un degno erede del grande cinema dei mostri universal degli anni ‘50. Con in più il tocco viscerale e morboso di un figlio del barocco messicano.

mercoledì, novembre 29, 2006

Che paura mi fa

Ahh.. che bello sentire di nuovo tirare i venti della censura su internet. Ti fa sentire importante, indica che hanno paura di quello che puoi dire. E' molto gratificante vedere come la lunga mano del potere politico italiano tenti periodicamente di bloccare le fonti di informazione indipendenti, prendendosela regolarmente in quel posto. Ricorda molto la storia con cui la gente si è conquistata il diritto di fare ed ascoltare una radio libera. Peraltro faccio ancora molta fatica a capire come l'Italia, solo poco più di trent'anni fa, poteva già definirsi un paese democratico quando il potere politico aveva in mano la comunicazione di massa e decideva cosa si doveva sentire e chi lo doveva dire.
Sta di fatto che in questo momento storico, a causa della commercializzazione di stampa, televisione e radio, la funzione di fonte di informazione libera ed indipendente è ricaduta su internet, sui blog, su google video, su youtube ecc. E' inutile comunque negare che, come ogni mezzo dell'uomo, anche la rete può essere usata per fare del male e con un approccio utilitaristico, semplice ma stupido, ci si devrebbe chiedere: fa più bene o fa più male? Io sono convinto che faccia molto più bene a patto che vengano rispettati alcuni criteri:
- accettare il fatto che internet, al suo interno, ha regole proprie di comportamento essendo unico rispetto agli altri mezzi di comunicazione e che la normativa che vale per i giornali, o quella per la radio, o quella per la televisione, non può essere applicata così come è ad internet a causa della sua stessa struttura decentralizzata;
- valutare in maniera differente la gravità delle violazioni commesse da chi utilizza internet sulla base delle finalità che lo spingono a compierle smettendola di denunciare ragazzini che condividono pochi file musicali;
- utilizzare internet in maniera il più possibile trasparente, massimizzando l'uso di strumenti leciti, come le Creative Commons per esempio, cercando invece di isolare i comportamenti estremamente gravi, che vanno colpiti duramente, su internet come per strada.
In un vecchio post mi chiedevo che fine avesse fatto il potere della televisione se i vari canali aizzavano gang di avvocati per minacciare ed avviare azioni legali nei confronti di ragazzi che si guardavano le partite del campionato in cinese. Se l'idea del sistema di potere è di confrontarsi con internet con gli stessi mezzi della televisione c'è poco da essere ottimisti. Io sono convinto che come la tv tradizionale, anche il mondo politico dovrà adeguarsi a questa nuova situazione o si rischiano passi indietro pericolosi soprattutto quando il mondo va avanti a salti tripli. Mi chiedo solo quanto ci metteranno a capirlo.

sabato, novembre 25, 2006

Il valzer degli addii


Muore così un altro grande del cinema americano. Altman ci ha lasciati. Al suo pubblico mancherà molto. Su tutti i giornali e in rete troverete esaurienti biografie e ricordi della sua vita e della sua carriera. Per questo, non vi annoierò con i miei. Vorrei invece ricordare, anche se un po’ in ritardo, un altro regista, completamente diverso per provenienza, età, fama, scomparso alla fine di agosto in un incidente stradale. Sulla sua morte non credo abbiate letto nessun paginone sui giornali e probabilmente non lo avete nemmeno mai sentito nominare. Il suo nome era Cristian Nemescu, romeno, 27 anni. Nato a Bucarest, si era diplomato in quella che è ormai riconosciuta come una grande fucina di talenti, l’Università di Teatro e Cinema “I.L. Caragiale” (so che non avete sentito nominare nemmeno questa, però sappiate che moltissimi cortometraggi premiati a Cannes negli ultimi anni con la Palma d’Oro, solo per fare un esempio, portano la firma di registi emergenti che hanno studiato lì). Il suo cortometraggio di diploma Poveste la scara C aveva fatto il giro dei festival internazionali e ricevuto diversi premi, così come i suoi lavori successivi. Poveste la scara C (nomination per il Miglior cortometraggio agli Oscar europei) e Mihai şi Cristina in Italia sono stati visti perlomeno dai fan dei La crus, perché contenuti nel dvd uscito in allegato con l’album “Infinite possibilità”, dove rimontati facevano da “colonna visiva” a due delle canzoni del CD. Praticamente tutti i suoi lavori sono stati presentati al Milano Film Festival. Quest’anno, Cristian aveva realizzato il suo quasi-primo lungometraggio, un film di 45 minuti, Marilena de la P 7, presentato a Cannes nella Settimana della critica. A luglio, aveva appena finito il girare il suo primo vero lungometraggio, California Dreaming, in post-produzione al momento della sua morte. Cristian raccontava sempre storie di adolescenti in procinto di affacciarsi alla vita. Lui, pure giovanissimo, riusciva a cogliere con grande sensibilità tutte le aspettative, le paure e l’impazienza del divenire adulti. Una notte si trovava con il suo tecnico del suono e amico Andrei Toncu (morto anche lui nell’incidente) a bordo di un taxi che è stato speronato da un SUV guidato da un cittadino britannico e che sfrecciava ad altissima velocità per le vie di Bucarest. È morto così un altro – forse in futuro grande – regista rumeno.

lunedì, novembre 20, 2006

It's a rich man's world

I soldi sono la più grande invenzione dell'umanità. Nel 3650 a.c. il pastore Cabnnuck, abitante di un villaggio della valle del Tigri, si reca dal suo amico Hafsimbis che coltiva il grano e distilla birra. Non avendo con sè il solito agnello per il baratto, Cabnnuck propone di dare a Hafsimbis un pezzo di minerale giallo e lucente. Hafsimbis rimane affascinato da quel minerale e accetta lo scambio. E' nato il denaro. La settimana dopo Gabnnuck torna con un altra pietra ma questa volta Hafsimbis ne vuole due. E' nato il prezzo. Allora Gabnuck gli promette che se gli da subito l'agnello alla sera gliene porterà tre, Hafsimbis accetta. E' nato il credito. Per non annoiare tralascio l'intervento del capovillaggio e la nascita delle tasse, nonchè la morte violenta sia di Cabnnuck che di Hafsimbis.
Resta il fatto che i soldi, nella nostra era, mettono letteralmente in movimento il mondo. Fanno, e fanno fare, tante cose belle; eppure lo chiamano lo sterco del demonio. Lungi da me fare il pauperista integralista ma è evidente che i soldi abbiano uno straordinario potere di trasformazione. Ho sempre sostenuto, e il maestro Perboni è testimone, che la mancanza di denaro spesso spinge gli artisti, in particolare i registi, a provare soluzioni alternative e originali. La povertà fa da sprone e spesso giovani autori emergono con il botto proprio grazie a film prodotti a bassissimo costo: Rodriguez con El mariachi, Smith con Clerks e Cuaron con Y tu mama tambien. Questi registi sono diventati famosi, hanno fatto i soldi, hanno incominciato a dire ai produttori "o così o ciccia" e inevitabilmente, precisi come un orologio svizzero, hanno fatto un film peggio dell'altro.
La visione sabato del film di Cuaron, I figli degli uomini, con Clive "the Driver" Owen, mi ha fatto tornare in mente il mio primo giudizio al suo Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, un film sgangherato in cui tutto è troppo. Cuaron spreca scene e attori come se non vedesse l'ora di spendere i soldi della produzione. Sarebbe normale in Italia, dove i soldi ciulati dalle produzioni di solito sono quelli del finanziamento pubblico. Comunque scommetto che anche questo film otterrà le sue belle recensioni da parte dei più influenti critici che, piuttosto che ammettere di aver preso un granchio, Cuaron lo ammazzano con le loro mani.
Concludo questo post dedicato all'indigestione di soldi, con un piccolo spot su Linux.

Usare legalmente un sistema operativo aperto, stabile e gratuito: zero Euro.
Navigare con un browser aperto, sicuro e personalizzabile: zero Euro.
Creare senza limitazioni documenti, fogli di calcolo, database, siti internet: zero Euro.
Stare sui coglioni a quelli della Microsoft: non ha prezzo.
Windows per i giochetti, per tutto il resto c'è Linux.

venerdì, novembre 17, 2006

Black Hole Sun

In uno dei suoi ultimi post, Duffo citava una frase di Bassani che dice “è dove il sole batte più forte che l’ombra è più nera”. Proprio vero, tanto che alcuni dei film più inquietanti della storia invece di svolgersi nella penombra delle case gotiche scelgono di terrorizzare lo spettatore mostrando orrori in pieno sole.
Ecco quattro esempi:

La casa dalle finestre che ridono (1976). Il titolo del classico horror padano di Pupi Avati viene pronunciato sottovoce, nel timore di risvegliare , il pittore delle agonie e le sue folli sorelle. Il sole placido del Polesine scandisce l’inarrestabile discesa agli inferi del protagonista. Fino alla sorpresa finale.

L’ultimo uomo della terra (1964). Tratto da “Io sono leggenda” di Matheson. Vincent Price è l’ultimo umano in un mondo dominato dai vampiri. Girato all’Eur, è uno spettrale viaggio tra gli spazi assolati e deserti del quartiere più horror e metafisico di Roma.

Non aprite quella porta (1974). Il primo, non i sequel o il remake. Faccia di cuoio, seghe elettriche, ganci da macellaio. Il nonno e il suo martello. Sudore e degradazione sotto il sole del Texas. Uno dei film che hanno creato il concetto di new horror: sangue e un senso di depravazione che pervade una storia di tare familiari e cannibalismo.

The Wicker Man (1973). Cultissimo degli anni ‘70 inglesi recentemente sottoposto a remake da Nicholas Cage. Un poliziotto supercattolico arriva in un’isola popolata da una comunità di neopagani dediti a riti sessuali e al culto degli elementi. L’orrore si genera poco a poco, man mano che la natura bizzarra degli abitanti dell’isola si rivela sempre più malvagia. Il disco solare è oggetto di culto e accarezza i corpi nudi delle adolescenti nei cerchi sacri. Mentre l’uomo di vimini attende lo straniero per dargli un caldo abbraccio.

Vi basta?

martedì, novembre 14, 2006

Le anime tollerate?

Ho letto con piacere su FantasyMagazine che MTV sta per rimandare in onda, in questi giorni, Daitarn 3, una delle migliori serie di robottoni giapponesi. Il giusto mix di ironia e azione, assieme aduna sigla che ti faceva cantare a squarcia gola, sforzandoti di modulare la voce per simulare il vocoder del verso "Daitarn/arriva il nemico/prepararsi/robot a energia solare/Daitarn", che da piccolo ti incollava alla televisione con la forza del Vinavil sul compensato. In realtà non c'è niente di strano che un cartone ben fatto ritorni dopo tanto tempo in tv, succede anche con i telefilm, e tanto meno su MTV che da qualche anno ha deciso di dedicare serate e giornate intere all'animazione giapponese.
Eppure la cosa mi lascia comunque perplesso. Quando qualche anno fa c'è stato il rilancio dei cartoni giapponesi nessuno ha avuto nulla da obbiettare. Probabilmente perchè li rilancio era stato fatto con cartoni nuovi per la tv italiana: Pokemon, Digimon e Dragon Ball non l'aveva visto praticamente nessuno finchè non è andato in onda su Italia 1. Sdoganati nelle riviste di cinema dai premi dati a Miyazaki e tra i corridoi delle emittenti televisive dagli investimenti pubblicitari del merchindising legato agli anime, costituito per lo più da videogiochi, giocattoli, ecc, e così pervasivo da far impallidire le campagne su Topolino della Bburago, del Dolce Forno Harbert e delle Girelle Motta. I nuovi cartoni giapponesi sono arrivati sul piccolo schermo senza clamori o sparate psicoanalitiche della Slepoy di turno.
Se rileggo adesso la parte dedicata agli anime nel libro di Luca Raffaelli "Le anime disegnate", mi stupisco della foga con cui l'establishment culturale degli anni '80 e '90 attaccò i cartoni nipponici. A parte il fatto che l'arrivò di Goldrake spaventò così tanto i benpensanti da provocare un'interpellanza parlamentare per la sua soppressione, tra le tante farneticazioni citate nel libro dal bravo Raffaelli, spiccano delle autentiche perle di squadrismo culturale ad opera dei beneamati compagni Vincenzo Cerami, Antonio Faeti e Furio Colombo che, in un'impeto d'ignoranza, arriva a biasimare la presenza "di tutte queste mazinghe". Le accuse generalizzate continuano imperterrite fino alla strampalata teoria della psicologa Vera Slepoj secondo cui la visione di Sailor Moon da parte dei maschietti poteva favorirne una crescita deviata verso l'omossessualità. Una teoria che, oltre a non essere suffragata da elementi statistici, non prendeva neanche in considerazione l'ipotesi che i ragazzetti allupati potevano essere interessati alla visione delle 5 protagoniste mezze nude.
Mi chiedo dunque dove siano adesso queste bocche della verità? Gli anime non sono più pericolosi? Eppure Daitarn 3 è un robottone vecchio stile. O forse sono diventati tutti tolleranti? O forse spalare merda sui cartoni non tira più?

sabato, novembre 11, 2006

C'è driver e Driver

Il complotto ordito da William Henry Gates III nei mie confronti sta producendo i suoi effetti. Ho scoperto che con mia grande sorpresa i produttori hardware sono nella maggioranza dei casi degli sprovveduti commercialmente e si limitano a rilasciare i driver per le loro periferiche solo per Window$ dimenticandosi di un'intera fetta di mercato. Il modem e la stampante, una Canon i320, non ne vogliono sapere di partire perchè non ci sono driver ufficiali compatibili per linux. Devo ammettere che, per quanto riguarda Linux, dal punto di vista dell'hardware l'utente base o ha fortuna e si ritrova tutte le periferiche riconosciute dal sistema all'installazione oppure se non vuole mollare, deve incominciare a smanettare. Ecco come nascono gli hacker. Sono queste stesse limitazioni imposte dall'industria informatica la causa all'hackeraggio, salvo poi farle passare come il rimedio necessario. Inoltre a riprova del fatto che questi sono veri e propri autogol commerciali è sicuro che la Canon, nel mio caso, ha perso un cliente.
Il secondo Driver del titolo inizia con la lettera maiuscola perchè si tratta è il nome del personaggio protagonista di una serie di 8 corti prodotti due anni fa dalla filiale americana della BMW dal titolo comune "The Hire". Il protagonista è sempre uno sconosciuto autista interpretato da Clive Owen che si ritrova a guidare di volta in volta un nuovo modello fiammante di BMW. Le storie vanno dai classici inseguimenti e fughe al limite del possibile compiendo evoluzioni a velocità pazzesche, a momenti molto drammatici oppure a storie completamente folli. Questi corti, prodotti per essere trasmessi nelle sale cinematografiche americane prima dei film, sono stati messi anche in DVD e venduti su internet fino alla chiusura del sito. Io a suo tempo l'ho comprato per 6 dollari originale dal sito della BMW e adesso su ebay lo vendono a 24 euro, quasi quasi...
Per dare un'idea del giro d'affari che c'era dietro a The Hire elenco i registi degli episodi:
John Frankenheimer, Ang Lee, Wong Kar-wai, Guy Ritchie, Alejandro Iñárritu, John Woo, Joe Carnahan, Tony Scott. Per quanto riguarda gli attori: Clive Owen, Don Cheadle, Murray Abraham, Stellan Skarsgård, Madonna, Gary Oldman, James Brown, Mickey Rourke, Forest Whitaker e il grande Tomas Milian.

mercoledì, novembre 08, 2006

Un cane giallo nella nebbia 2

I libri del primo ciclo di Maigret, quelli che prendo in considerazione, vengono scritti e pubblicati tra il 1931 ed il 1934. In quegli anni furoreggiano ancora i detectives deduttivi alla Sherlock Holmes. Il primo Poirot è del 1920, Ellery Queen del 1929 e ancora nel 1934 compare Nero Wolfe, che addirittura non si muove nemmeno dal suo ufficio per trovare gli indizi e fa solamente sfoggio della propria strabordante intelligenza. Contemporaneamente, ma soprattutto dopo Maigret, in America nasce l’hard boiled con i romanzi di Raymond Chandler e Dashiell Hammett, e che in Italia prenderà impropriamente il nome di noir. In Inghilterra dalla seconda metà degli anni ’30 il genere spionistico fa un salto di qualità con Eric Ambler e Graham Greene. Nonostante la diversità delle singole storie, tra questi generi è possibile individuare due tipologie ben precise di detective:

  • il detective deduttivo, che raccoglie indizi, interroga i sospetti quasi in maniera asettica e che fino alla fine non fa trapelare nulla delle proprie conclusioni preparandoci così al colpo di scena della soluzione, prova poche emozioni ed alla fine del caso è lo stesso dell’inizio, nessuna ferita permanente o nuove amanti all’orizzonte, così all’inizio del romanzo successivo lo possiamo trovare nuovamente in perfetta forma, pronto per una nuova indagine;
  • l’investigatore privato maledetto, che prende botte e le dà, che si innamora e viene lasciato o peggio gli uccidono l’amante, che si ubriaca, che non svolge un indagine deduttiva scegliendo il colpevole tra un gruppo di sospetti ma spesso deve ricostruire il destino di una persona inseguendo il suo viaggio senza ritorno sempre più giù, verso i bassifondi della città, e che alla fine non è più lo stesso, in quanto la vicenda lo ha definitivamente cambiato.
Tra queste due categorie Maigret sta in mezzo. Lui è un poliziotto che lavora a Parigi da una vita ma è venuto dal borgo. La città gli piace ma a volte gli va stretta. Si trova bene in quei piccoli porti della Normandia dove ha a che fare con gente come lui. Si sente molto coinvolto ai casi che affronta ed in qualche modo responsabile per il destino dei personaggi. E’ un collerico ma, come detto, sa essere comprensivo. Per quanto “Il cane giallo” nel finale sembra dimostrare il contrario, la indagini di Maigret sono quasi sempre pure ricostruzioni. Inseguimenti alla maniera di Maigret, con tenacia e furbizia. Se Philip Marlowe era il risultato della periferia degradata della grande metropoli americana, Maigret è il frutto dei bottegai parigini e dei pescatori di Le Havre. Non è un genio onnisciente ma sa far funzionare il cervello e soprattutto usa il buon senso. Si concede i piaceri della tavola e si ingozza di calvados. Se c’è da fare un appostamento ha la pazienza dell’addetto alle chiuse sulla Senna. Insomma Maigret è plasmato sulle caratteristiche dell’ambiente dove svolge le sue indagini ed in questo c’è la forza ma anche la debolezza del personaggio (non riesco a scrivere una recensione senza qualche critica).
Maigret non sarebbe mai dovuto arrivare al 1972, anno dell’ultima pubblicazione di un inedito. Simenon aveva deciso di chiudere definitivamente con il commissario già nel 1934, ma venne convinto dagli editori. Maigret è figlio degli anni ‘30 e non è esportabile cronologicamente. Sinceramente, tranne ”L’affare Picpus”, non ho letto i romanzi di Maigret post 1934 ma non rieco proprio ad immaginarlo, se non come una forzatura, alle prese con terroristi internazionali, narcos colombiani e serial killer. Non c‘è partita, loro non hanno lo stile necessario per competere ad armi pari. Un borseggiatore slavo della Parigi del ’33 che uccide una prostituta per rubarle i soldi, lui sì che riesco ad vederlo nell’ufficio al Quai d'Orfevres, tutto bagnato, sfinito e intento a confessare mentre Maigret, vicino alla stufa, fuma la pipa.

lunedì, novembre 06, 2006

Un cane giallo nella nebbia 1

In risposta ad un commento di Zer0percento al post precedente, ho scritto che tendiamo a rifugiarci nei mondi fantastici creati dalla letteratura, dai fumetti e dal cinema in quanto schifati da un presente in cui facciamo fatica a riconoscerci e che peggiora sempre più. Questa considerazione non è nuova, anzi è quasi banale ed spesso usata dai detrattori del genere fantastico, ma devo ammettere che mi è uscita da sola pigiando i tasti. Più per pigrizia, ma anche perchè secondo me ha qualche attinenza con questo discorso, posto in due rate una mia vecchia recensione ad un libro di Simenon "Il cane giallo", che ha per protagonista il celebre ispettore Maigret.

“Fatto sta che io non deduco mai...”.
Come tutti i parrucconi universitari ed i ribelli underground che prima di me hanno parlato di Maigret, ed in particolare di questo romanzo, non potevo esimermi dal citare questo passaggio, ed ora che l’obolo alla tradizione è stato versato veniamo al libro. Il romanzo “Il cane giallo” è il sesto del primo ciclo del celebre ispettore della Sûréte ed è stato scritto da Simenon nel 1931, mentre si trovava in viaggio con la sua barca tra i porti di Normandia, Belgio e Olanda. Il libro è bello, veloce e merita una lettura. L’atmosfera è, come al solito per Simenon, la vera protagonista della narrazione: vi potrebbe capitare di aprire uno dei romanzi del primo Maigret e di venire sommersi da un banco di nebbia che si sprigiona dalle pagine e sentire in lontananza il fischio di una vecchia chiatta che entra nel porto con un carico di pietre danesi. Il vero "Porto delle nebbie", secondo me il miglior Maigret.
In questi luoghi, al confine tra un universo onirico ed il negozio del pescivendolo, avvengono i delitti di cui si occupa il commissario. Questi delitti non sono mai così violenti, almeno per quanto riguarda le prime inchieste, da poter essere definiti cruenti, tutt’al più si tratta di storie torbide, come l’acqua dei fiumi che sfociano nel Mare del Nord. D’altronde, come diceva Giorgio Bassani, “è dove il sole batte più forte che l’ombra è più nera” (oggi sono in vena di citazioni) ed è quindi più facile imbattersi in efferatezze di ogni tipo quando si bazzica nei salotti delle persone perbene. Solitamente nei romanzi di Maigret l’omicidio è l’estrema conseguenza di una catena di eventi messa in moto da piccoli imbroglioni, prostitute e disperati in genere che sguazzano nel torbido per sopravvivere. Personaggi per cui Maigret spesso prova compassione, più ancora che per le vittime, e che cerca, nei limiti del loro coinvolgimento nell’omicidio, di riportare sulla retta via. Quelli che Maigret veramente non sopporta sono i ricchi borghesi e la nobiltà in generale, bigotta e socialmente razzista. Pronta a scannare per ogni bieco motivo e senza provare il minimo rimorso. In Maigret dunque è l’ambiente sociale e l’atmosfera che ne deriva che creano il delitto, i colpevoli ed in un certo senso anche l’investigatore.
Per spiegare questo concetto bisogna collocare Maigret nella cronologia della letteratura gialla o più propriamente di indagine.
(Continua)

sabato, novembre 04, 2006

Arriva il freddo e il Capitano Orso Blu

Il clima è cambiato. Il vento è girato e soffia da nord, come in ogni storia di magia che si rispetti. La platy sostiene che non riesce a leggere Harry Potter d'estate. Penso che abbia ragione, alcuni libri hanno un periodo di lettura ottimale o meglio una temperatura ottimale. Leggere le avventure del commissario Maigret sotto l'ombrellone in bermuda non è la stessa cosa di farlo sdraiati sul divano, sotto una copertina, mentre fuori il freddo fa alzare la nebbia dai fossi.
Forse questa considerazione, inconsciamente, influenza anche le scelte per i libri che intendiamo regalare. Forse è stato un ottobre particolarmente caldo a spingermi a comprare "Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina" di Guillermo Arriaga per festeggiare l'ottantaduesimo genetliaco della platy, cara vecchietta che fa ancora le crepes come quando cucinava all'Hotel Ritz di Rodi.
Ieri sono tornato in libreria per un altro regalo e, condizionato probabilmente dal freddo siberiano e dall'odore di caldarroste vendute sul marciapiede da un vecchietto gallese, mi sono diretto subito verso gli scaffali che ospitano i romanzi di Walter Moers, il geniale autore del "Le tredici vite e mezzo del Capitano Orso Blu". Moers è un fumettista, discusso in Germania per i temi che ha trattato e in particolare per la striscia Adolf, che un giorno ha deciso di dare sfogo alla sua creatività e di scrivere libri per bambini cresciuti. Il libro del Capitano Orso Blu non è classificabile. E' un unico romanzo ambientato nel mondo di Zamonia, ma è come se fossero 13 libri distinti, collegati in un bellissimo finale. E' un libro che le mamme e i papà possono leggere assieme ai loro bambini senza annoiarsi. Un esperimento transgenerazionale riuscito appieno, come Harry Potter, ma che a differenza dei romanzi della Rowling si avvale meno dell'immedesimazione con il protagonista. Un libro da regalare insomma per qualcuno che fa gli anni in autunno o come regalo di Natale.
Stavolta però ho preso, sempre di Moers, "La città dei libri sognanti", che è appena uscito. Anche questo libro è ambientato nel mondo di Zamonia e se è bello solo la metà del Capitano Orso Blu sarà sicuramente un regalo azzeccato.

lunedì, ottobre 30, 2006

Il Grande Fratello in Vista?

Sarà che sento ancora gli influssi del Linux Day, sarà che alcuni aspetti delle politiche "commerciali" di Microsoft stanno incominciando a preoccuparmi, il fatto è che ho preso una radicale decisione. Ho deciso di trasmigrare, piano piano, verso il pinguino e più precisamente verso una distribuzione dal nome esotico Ubuntu. Come ai vecchi tempi leggerò il mio bel manualino e me lo installo, sforzandomi un po' rispetto a windows.
Le notizie che ogni giorno trapelano riguardo a Windows Vista prefigurano un sistema operativo famelico di risorse e capace di creare un gap notevole tra coloro che potranno permettersi delle macchine in grado di farlo girare e chi no. Bisognerebbe capire perchè uno che usa il computer per navigare, scrivere e far di conto abbia assoluto bisogno di un PC a 2GHz con almeno 1 giga di RAM. Di Vista ne ha bisogno l'utente medio? O piuttosto bisognerebbe dire che ne ha bisogno disperato il mercato dei computer, per obbligare tutti a quell'upgrade planetario che avviene ad ogni rilascio di una nuova versione del sistema operativo Microsoft? Secondo me un sistema operativo dovrebbe essere a servizio della macchina, non il contrario.
C'è poi un altro aspetto poco trattato dai media ma ben più grave e che a molti ha fatto venire alla mente 1984 di George Orwell. Probabilmente nel 2008 verrà implementata in Vista la nuova architettura software (NGSCB) in grado di interagire con l'hardware predisposto per il Trusted Computing. Se non sapete cos'è il trusted computing questo filmato ve lo spiega in maniera molto semplice.




Il richiamo al Grande Fratello (magari fosse quello di Canale 5) è una forzatura? Mettete insieme lo scenario descritto nel filmato con la diffusione di windows in aziende, enti pubblici, scuole, associazioni, ecc è avrete un bel fratellone che vi controlla sempre, vi dice come lavorare, come giocare, come studiare, come comunicare...

domenica, ottobre 29, 2006

Verrà un Linux Day in cui....

Ieri si è svolto il Linux Day anche a Portogruaro, organizzato dal 0421UG di San Donà e, incredibilmente, dal Comune. Le conferenze a cui ho assistito, tenute da tre ditte d'informatica della zona, e su questa scelta si potrebbe discutere ampiamente, più che su linux si sono incentrate sul discorso più generale di software libero e di open source e della sua applicabilità in ambito professionale. Nel complesso la cosa mi è piaciuta ma non posso esimermi da fare qualche critica. Un inciso: il maestro Perboni e la platy sanno bene quanto mi piace criticare anche le cose che mi piacciono, e questo mi porta a criticare anche il mio criticare, in un feedback paranoico infinito che finisce, il più delle volte, chiuso in un buio sottoscala. Tornando al linux day sono sicuro che le scelte organizzative siano state limitate dalla carenza di tempo e di spazio ma per una prossima edizione bisogna rendere più "appetibile" il prodotto.
Innanzi tutto bisogna decidere preima se lasciare Windows fuori dalla porta o no. Se l'iniziativa si chiama linux day non è un bel segno che tre presentazioni su tre siano fatte attraverso notebook con Windows XP come sistema operativo e con Powerpoint (ma di questo però non sono sicurissimo) per le slides invece che Impress di Open Office. Poi va assolutamente data priorità alla presentazione di quei programmi open source destinati ad un uso estensivo e cioè un uso giornaliero e alla portata di tutti quelli che sanno spingere il tasto ON del pc. In questo senso è abbastanza deprimente vedere in 5 minuti cosa sono firefox, thunderbird e open office tramite delle slides e degli screenshots delle versioni vecchie, la 2.0 di firefox è già fuori da una settimana, indicando i link da cui scaricarle. Per quello basta un motore di ricerca. Si doveva far capire, con dimostrazioni da proiettare, cosa sono in grado di fare questi programmi. Ultima critica, che come le altre vuole essere costruttiva in vista delle prossime edizioni, è di aver completamente dimenticato uno degli aspetti principali che riguardano l'uso del computer, quello ludico. Organizzare una partita multiplayer in Lan di CUBE o Warsow (entrambi sparatutto in prima persona open source di ottimo livello) fatti girare su linux avrebbe attirato orde di ragazzini. Ai quali, a dir la verità, di installare un server virtuale apache o un firewall non interessa molto. Nel complesso questa prima edizione è stata comunque un successo di pubblico che favorirà sicuramente nuove iniziative, sperando solo di non dover aspettare l'autunno dell'anno prossimo per vederle.
Degno di nota il fatto di aver introdotto nel discorso anche il tema della licenza Creative Commons per mezzo di un concerto del gruppo reggiano Yue Project, che realizza musica elettronica di buona fattura rilasciata appunto in CC e scaricabile liberamente dal loro sito e da Jamendo (nel caso che mi leggano chiedo perdono al gruppo precedente agli yue ma non mi ricordo il loro nome). Cliccando sul lettore qui sotto dovreste poter ascoltare i loro pezzi in streaming.

giovedì, ottobre 26, 2006

Detective Dante / Brad Barron 5-0

Dopo diciotto rutilanti numeri si è concluso Brad Barron, miniserie Bonelliana che cercava di rinverdire i fasti della science fiction anni cinquanta, quella a base di bug-eyed monsters, trifidi, creature verdi e dischi volanti. B.B. ha avuto i suoi pregi e i suoi difetti. Tra i pregi, la possibilità di decorare gli scaffali con la fascetta posteriore delle copertine, che compongo il faccione acromegalico di Brad e una buona atmosfera fifties, con spettri di guerra fredda e distruzione atomica. Tra i difetti, la monotonia, la piattezza, la prevedibilità. La bonellosità della storia, che potrebbe essere riassunta in una sola frase: non è successo niente. O meglio, il mondo è stato invaso da alieni rettiloidi e malevoli, sono morti moltissimi esseri umani e Brad Barron ha fatto un piacevole tour della costa orientale degli States, tra umani traditori, sette di hillibillies, amori sfiorati e un bel po’ di ammazzamenti di mostri. Ma in fondo la storia per diciotto mesi è scivolata inarrestabile verso l’esito annunciato: la moglie e la figlia di Brad non sono morte, il mondo è salvo. Tutto è bene quel che finisce bene. Il problema è che, come in quasi tutte le serie Bonelli, tutto sembra svolgersi in una specie di universo sospeso, un tempo zero in cui la monolitica psicologia dei personaggi è più immobile di un testuggine catatonica. Brad Barron non è diverso da Tex, decine di avventure che si ripetono secondo uno schema consolidato: nel caso di Barron lo schema era del tipo “Arrivo in una nuova cittadina/incontro con qualche nuova perfidia aliena/rischio di morte/risoluzione/partenza per un’altra cittadina”. Il livello di suspense pari a quello di una puntata dell’A-Team (senza Murdoc e Mr. T però). Gli intrecci sapientemente costruiti con la verve di uno sceneggiatore di incontri di Wrestling di secondo piano. Sempre la stessa storia. La Bonelli non vuole cambiare stile. Le poche novità (Julia, il defunto Napoleone, Dampyr, Magico Vento) sempre con la spada di Damocle della ripetitività. I personaggi non invecchiano mai, gli eventi gli passano sopra e scivolano via senza mai modificare di una virgola il loro modo di rapportarsi al mondo. Diverso il caso di Detective Dante dell’Editoriale Eura. Qui la storia è costruita come una dolorosa e lacerante ascesa al cielo attraverso le ossessioni, gli incubi e i sentimenti del protagonista.. Le regole del noir moderno, quelle di Sin City e dei film di Michael Mann, sono piegate a un’accurata caratterizzazione del personaggio. Dante è uno psicotico autentico, non caricaturale (e in questo supera perfino Sin City). Le storie sono tese, sempre sul filo del colpo di scena. Può succedere letteralmente qualsiasi cosa. Se si muore, si muore per davvero, se ci si innamora, si soffre. Nessuno è al sicuro, nemmeno i protagonisti (ed è questo lo spirito del Noir). La violenza è pura devastazione, ma non è gratuita. Le storie non si ripetono, ma tracciano delle soglie di cambiamento che Henry Dante continua ad attraversare. Nell’ultimo numero inizia la saga finale, quella del Paradiso. Ma qualcosa mi dice che il Paradiso di Detective Dante non è pieno di cherubini e il bianco delle vesti è sostituito da quello di polveri sospette. Insomma, sul mio personalissimo cartellino Detective Dante batte Brad Barron cinque a zero.

mercoledì, ottobre 25, 2006

Il mago, il dito e il piede

Iniziamo dal piede. Oggi mi sono alzato col piede sbagliato e naturalmente al lavoro è stato una schifo. Un vecchio assicuratore scemo mi ha fatto girare le balle come non mi succedeva da tempo e per concludere degnamente la giornata in ufficio mi sono rotto l'unghia del pollice destro sbattendo come un babbaleo sulla cassamatta della porta. Ho dovuto andare a nuoto incerottato, sperando di non perdere la protezione durante le bracciate. Naturalmente l'ho persa e l'unghia si è rotta ancora di più. Volevo inaugurare il nuovo blog in maniera più lieta, pazienza.
Il mago di cui voglio parlare è Alan Moore. E' un seguace della Wicca e crede di essere un mago, uno vero non un illusionista alla Copperfield, uno tipo Merlino insomma. Moore è anche un grande sceneggiatore di fumetti e in precedenza avevo già parlato del suo Watchmen. Quel fumetto mi aveva entusiasmato, la storia, i personaggi, i disegni, tutto. Purtroppo non posso dire la stessa cosa di "V for Vendetta", finito di leggere dopo mille interruzioni in questi giorni, e che devo dire la verità mi ha lasciato abbastanza perplesso. Innanzi tutto ho avuto la cattiva idea di leggere l'edizione pubblicata in allegato tempo fa con XL di Repubblica, stampata con i colori orribili della prima edizione americana, ma questo è un problema mio. Parliamoci chiaro,la storia è avvincente e scritta benissimo, quello che mi fa storcere il naso è il risvolto morale ed in particolare il protagonista V. Moore è onesto a presentare V: gli fa fare delle bastardatate di tale portata che possono spingere in egual modo un lettore ad amarlo oppure ad odiarlo. Moore però è scorretto a raffigurare le vittime di V, che vengono sempre presentate con un animo corrotto e meritevoli di punizione. Come è possibile che un fumetto così possa fare presa tra gli appassionati tanto da diventare un icona della lotta contro il potere? V for vendetta è un fumetto che va preso con le molle, possiede dei lati oscuri, delle giustificazioni che potevano essere accettate da dei ragazzotti "rivoluzionari" degli anni '80 ma da me, oggi, proprio per niente. Ma forse sono io che non ho capito, forse c'è il trucco, dopotutto l'autore è un mago.