sabato, aprile 14, 2007

La Strategia dell’Ariete

Inizia come un film di Indiana Jones, con scontri tra bande di malviventi nella Shanghai del 1920, e si chiude negli USA paranoici della guerra fredda, in un clima degno di un thriller psicopolitico alla Manchurian Candidate. In mezzo c’è di tutto: Mao che fa le prove generali per la conquista del potere, antiche confraternite occulte, massoneria ed esoterismo nazista. E poi avventurieri in America Latina, omicidi a bizzeffe, corruzione e sete di potere, millenni di storia e di segreti. La strategia dell’ariete (pubblicato da Mondadori) è un frullatore in cui la letteratura di genere viene sminuzzata e ricomposta in un volume di quasi 500 pagine che si fa leggere tutto d’un fiato (impegni permettendo…) e segna la nascita di un nuovo talento polimorfo e tentacolare: Kai Zen. Si tratta di un collettivo formato da quattro scrittori sparsi in giro per l’Italia che adottano un modello di scrittura fluviale e labirintica alla Wu Ming. Forse non sono geniali come gli autori di Q, ma la loro scelta di affrontare i più triti luoghi comuni dell’immaginario pop sul campo, senza troppe velleità artistiche, risulta vincente, apparentandoli a quell’altro grande guastatore della letteratura che è Valerio Evangelisti. I Kai Zen immergono il lettore in una trama complessa e fitta di rimandi incrociati in cui i piani temporali si alternano in capitoli brevi, scandendo il conto alla rovescia verso un epilogo teso e ferocemente cinico come il miglior Ellroy. Il delirio complottista si lega all’esoterismo d’accatto, la deprogrammazione mentale della CIA all’egittologia, mentre nella foresta del Paraguay un filo millenario di poteri che operano nell’ombra sembra essere sul punto di riallacciarsi. Il respiro di Seth, forse, tornerà a soffiare libero, per controllare le menti dei deboli e riattivare i poteri di controllo dei discepoli dell’Ariete. La strategia dell’Ariete è uno splendido polpettone psicostorico che si meriterebbe un filmaccio di serie b oppure dovrebbe essere pubblicato a puntate su riviste spazzatura, di quelle che ci si vergogna di comprare, con titoli come “Antichi misteri della mente”, “Extraterrestri & Complotti”, “Segreti dell’occulto”o il “Corrierino di Thule”.

http://www.lastrategiadellariete.org/

venerdì, aprile 06, 2007

Microrecensioni

Tideland di Mitch Cullin – Della serie, se Terry Gilliam ci ha fatto un film, il libro deve per forza essere interessante. Errore: il libro è un capolavoro di letteratura per l’infanzia. Sempre che per voi l’infanzia sia una stanza piena di visioni e incubi in cui le teste di Barbie parlano. Una ragazzina in una casa isolata, in Texas. Il padre è uno sfattone in declino psicofisico, l’immaginazione l’unica via di fuga. Una famiglia di freak per amici. Un libro che si mangia Ammanniti a colazione e Stephen King a cena. Poetico e dolcissimo. Cattivo e innocente come solo i bambini sanno essere.

Il Collare Spezzato, di Valerio Evangelisti – Il papà di Eymerich continua il periodo sabbatico dalle fatiche inquisitoriali e ci regala il secondo tomo della sua trilogia messicana. Come sempre il bolognese si conferma scrittore capace di conquistare il lettore con il suo mix di storia reale e immaginata, raccontando le lotte sociali, i complotti e le speranze del Messico nei primi decenni del secolo, da Porfirio Diaz a Villa e Zapata. Decine di personaggi alle prese con la lotta per la vita, in una terra in eterna lotta contro se stessa, contro l’Europa e contro gli Stati Uniti per spezzare il collare dello sfruttamento. Utopie e sopraffazione, populismo e violenza libertaria. Da leggere con in mente le immagini di Giù la testa di Sergio Leone. Perché la rivoluzione non è un pranzo di gala. Parola di Mao, uno che se ne intendeva.

giovedì, marzo 22, 2007

Marsiglia Mon Amour 2

Ennesimo segnale della rivalsa di Marsiglia è la miniserie bonelliana Demian, in cui un bel tenebroso dai lunghi capelli biondi si erge ad angelo vendicatore contro i nuovi mercanti di morte (droga, rifiuti tossici, armi, traffici vari con l’est Europa, Yakuza, ecc.). Demian è stato allevato da un vecchio marpione del milieu, un malavitoso vecchio stampo (con la faccia di Jean Gabin) ed è accompagnato da una simpatica canaglia baffuta, Gaston, altro delinquente di lungo corso con una figlia che fa la poliziotta. Tra inseguimenti in moto e regolamenti di conti spietati, in Demian si spara molto, ma si respira una bella atmosfera da film di serie B anni settanta: da un momento all’altro ci si aspetta di veder saltar fuori Belmondo o Ventura. Insomma, rispetto all’immondo Brad Barron, Demian ha un buon ritmo ed è privo del buonismo di altre serie bonelliane. Le storie sono sufficientemente originali e dure (bella quella sulle guerre africane o il viaggio nei ricordi algerini di Gaston). Magari non rimarrà nella storia del fumetto, ma ben venga un personaggio capace di farci appassionare ancora una volta ai cari vecchi Marsigliesi. Ultima nota positiva, ogni numero ha una pagina dedicata ad un classico del nero alla francese o del polar: Tardi, Manchette, Gabin, Izzo, Josè Giovanni tra gli altri. Oltre al nostro Gian Carlo Fusco.

domenica, marzo 11, 2007

Aspettando Manituana

Grande attesa per il nuovo libro dei Wu Ming, Manituana. La storia, ambientata nell’America del Nord, nella zona del fiume Mohawk, nel 1775 (quindi appena prima della rivoluzione americana) dovrebbe parlare delle sei nazioni Irochesi e della lotta dell’indipendenza delle colonie dalla corona. Ritorneremo ad uno di quei momenti in cui la storia del futuro impero a stelle a strisce avrebbe potuto prendere una curvatura diversa (il sottotitolo è “una storia dalla parte sbagliata della storia”…). Pensateci un attimo, e se le nazioni indiane avessero formato un unico corpo militare per resistere agli invasori, che sarebbe successo? Mi ricordo, a tal proposito, un bel fumetto di Oesterheld e Zanotto, Wakantanka, ambientato più o meno nello stesso periodo, con Moicani, Irochesi, Uroni, ecc. La cosa interessante di Manituana è il suo carattere composito e interattivo. I Wu Ming hanno già creato un sito con mappe, suoni, musiche, trailer, racconti di avvicinamento e notizie storiche di contorno (www.manituana.com). Con l’uscita del libro, prevista per il 20 marzo, verrà aperta una sezione di Livello 2, accessibile con una password “deducibile dalla lettura del romanzo…” che dovrebbe creare una specie di doppiofondo on line del libro. Insomma, i Wu Ming, dopo aver combattuto tante battaglie sul no copyright e le strategie di resistenza culturale per cambiare il rapporto tra scrittura, editoria e autorialità, continuano a smontare i luoghi comuni romanzeschi. Non vediamo l’ora!

giovedì, marzo 08, 2007

Marsiglia mon amour 1

È riesploso l’interesse per i cari eroi della nostra infanzia. Vale a dire quei Marsigliesi di cui Duffo è uno dei più noti sostenitori. Dopo che negli anni settanta le cronache italiane erano occupate dalle gesta degli spietati Albert Bergamelli e Jacques Berenger, da un po’ di tempo del crimine del milieu marsigliese non si parlava più. Giusto Izzo a tenere alta la bandiera della città meticcia per eccellenza, il porto della legione straniera e dell’immigrazione italiana, del tour corso e della fraternidad catalana. Se negli anni sessanta, sotto il governo De Gaulle, Marsiglia era la capitale dell’intermediazione nel traffico degli stupefacenti, facendo da ponte tra la Turchia e l’occidente, pare che lo scettro sia ora passato ad altre zone del mondo. Insomma, la casbah di Zidane e dello sfegiato Ribery pareva caduta nel dimenticatoio e il suo mito criminale veniva rivitalizzato solo dai rari passaggi in tv de Il Braccio violento della legge, con Rabal a fare il boss in tournee criminale a New York. Nel 2005, però, è stato ripubblicato Duri a Marsiglia, del giornalista viveur attore contaballe Gian Carlo Fusco, immortale nella parte del padrone del ristorante con i capelli rasta di Ku Fu, dalla Sicilia con furore. Se nel capolavoro di Franco Franchi menava craniate a destra e a manca, in Duri a Marsiglia (uscito in origine nel 1974) Fusco racconta le avventure, romanzate, da lui vissute negli anni trenta nella Marsiglia dei clan. Ovviamente sono solo spacconate, ma la città dei Caid e delle faide, che tenne testa ai nazisti (che ne distrussero il vecchio porto) dando origine al maquis noir, la resistenza nera che tanti grattacapi diede agli occupanti con la svastica, viene raccontata alla perfezione. Jo le Maire, il sindaco, l’indiscusso paciere della città viene proprio da quell’epoca là (anche lui sarà nella Roma della dolce vita criminale dei primi anni settanta). Insomma, glorie passate del porto Mediterraneo, ma con una differenza, se negli anni venti e trenta Marsiglia era la patria di comunità criminali provviste di un codice d’onore ferreo (perché altrimenti sarebbero state guerre continue) e negli anni settanta era la patria dei grandi trafficanti di droga e dei cani sciolti tipo Bergamelli e Berenger, oggi è solo un crocevia di traffici globalizzati. Per fortuna c’è Ribery, con quella faccia da film con Lino Ventura.

giovedì, marzo 01, 2007

Ritorno alle origini

L'uomo nasce disoccupato. E disoccupato io sono ritornato. Non si tratta di un cambiamento negativo, anzi, è un ritorno alle origini sospirato e atteso, un po' perchè alla fine mi ero letteralmente intossicato di quel lavoro, del suo ambiente e delle sue scadenze, e soprattutto perchè ritornare alle origini significa avere la possibilità di cambiare in meglio. Quindi si ricomincia a cercare, a leggere ed anche a scrivere sul blog. Un post al giorno magari è troppo ma prometto sicuramente di postare con molta più frequenza di prima. Voglio tornare a scrivere con una certa continuità di argomenti che non interessino nessuno, tranne me e possibilmente il maestro Perboni e la platy.
Visto che si parla di origini, prendo la palla al balzo per parlare di un film, "La forza del passato", che finalmente ho visto dopo anni dalla sua uscita nelle sale. Come il libro di Sandro Veronesi da cui è tratto, il film ha come argomento centrale proprio il rapporto del protagonista con il suo passato, con la figura del padre appena morto, con l'inconciliabilità del ricordo personale con la verità storica. Il film, interpretato da Sergio Rubini e Bruno Ganz, è un onesta trasposizione di un ottimo romanzo, veloce e scritto molto bene. Un punto comunque a favore del film è la scelta di Trieste come città dove si svolge la vicenda; una città con tanti passati diversi e con i quali non è mai riuscita a fare i conti fino in fondo. Notevole inoltre , per un film italiano, che il regista Piergiorgio Gay abbia scelto alcune canzoni di giovani gruppi indie italiani per la colonna sonora, tra cui "Dipendo da te" dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Molto figa la maglietta dei TARM indossata da Rubini, col disegno di Davide Toffolo sulla panza.

domenica, febbraio 25, 2007

Darkel Star

In attesa del nuovo disco degli Air – ormai imminente – recupero DARKEL, prima opera (e primo progetto) solista di Jean Benoit Dunckel, vale dire metà del duo di Versailles. Jean Benoit si diverte a scrivere melodie, come sempre, aeree, aggiungendovi però qua e là un tocco oscuro, leggermente più straniante del solito. DARKEL, in ogni caso, è tutt’altro che un disco di seconde scelte: si apre con Be My Friend, french touch purissimo ma come filtrato da echi orrorifici, tra le tastiere anni ’80 del primo Carpenter e le progressioni di Profondo rosso. E poi si continua viaggiando tra cristalline aperture di pop caramelloso, quasi alla Beatles (At the End of the Sky, la saltellante My Own Sun), una urticante fiammata di glam elettrico, tra il primo Bowie e i T-Rex (TV destroy, attraversata da un synth in pieno trip da sovraccarico neuronale), un’inarrestabile apertura robotica che mette in incubatrice onde funk e morbide macchine kraut (Hearth). Ma DARKEL sa anche soffermarsi su spazi più meditativi, come nella filastrocca elettronica da occhi stropicciati di How Brave You Are o nella finale, fatata, Bathroom Spirit. Imperdibile, e non solo per i devoti degli Air.

lunedì, febbraio 19, 2007

Pezzi di Saggezza

Udine, Innovaction, Process Space. Arriva Andrea Pezzi, per un incontro con il pubblico. Dolcevita sotto giacca scura, occhiali sulla fronte, decisamente alta. Pezzi è bello, dal vivo ancora di più. Occhi verdi e un po’ acquosi, barba di tre giorni regolata ad arte. Ha le palle girate e lo fa sapere a tutti. Al mattino ha moderato un incontro con alcuni guru dell’innovazione, tra cui Oliviero Toscani, e la cosa lo ha fatto incazzare. Avrebbe voluto dire delle cose, le dice ora, davanti a un pubblico ristretto di curiosi. Il bell’Andrea, aria di uomo che ne ha viste di cotte e di crude, inizia la sua lezione su come si sta al mondo. Ignora bellamente le domande dei due intervistatori, parte per la tangente, va in modalità maestro di vita. Si scatena in un name dropping filosofico ridicolo e fuori luogo: Husserl, Wundt, i grandi umanisti italiani, quel coglione di Freud. Vuol far vedere che ha letto i libri giusti, che è stanco di passare per “quello di MTV”. Dice che per anni ha fatto finta di essere più scemo di quel che è in realtà. Lo hanno costretto a farlo (e i soldi che ha preso per questo, dove li mette?) ma ora ce la fa vedere lui: non esiste la massa intelligente, esiste solo l’individuo. Internet e Wikipedia sono una stronzata, l’intelligenza collettiva non esiste. Il ‘68 una tragedia, gli americani superficiali (originale!) Della vita non si può parlare se non si è dei maestri. Lui non lo è, quindi non si permetterebbe mai. Però parla, parla solo lui, giudica tutto e tutti, apre squarci di paranoia esistenziale e mal di vivere. Cita Gesù Cristo e Nietzsche (sempre più originale). Non dice superuomo, forse fa troppo Marvel e MTV per lui. Dice Oltreuomo, perché ha una cultura europea (ma chi glielo dice che lo scriveva già Vattimo trent’anni fa?). Poi si capisce tutto: lui in fondo un maestro lo ha incontrato. È Meneghetti, guru dell’ontopsicologia (provate a digitare Pezzi Ontopsicologia, poi fateci sapere cosa avete trovato), uno che ha ricevuto una laurea honoris causa per la scoperta del “campo semantico” e che ha subito un bel po’ di processi. Uno grande quasi come Mamma Ebe. L’uomo che gli ha cambiato la vita. Allora si capisce che molte delle cose che cita per zittire gli altri sono probabilmente letture di seconda mano, orecchiate in giro, saperi segreti rivelatigli dal Maestro e preclusi a noi comuni mortali, che non possiamo pagarci la scorciatoia per diventare mâitre a penser andandocene a San Pietroburgo. Svelato l’arcano, Pezzi gioca a carte scoperte. Il monologo assume contorni deliranti e messianici; taglia corto con il dibattito, dato che l’interazione a lui non interessa gran che. Si alza e tanti saluti. Come Kaiser Soze alla fine dei soliti sospetti Andrea Pezzi, Luciferino, scivola via e scompare. Come se un invisibilissimo sciacquone lo avesse portato via, lontano da noi, in un universo più buono e giusto, ontopsicologico, in cui lui non è solo un ex vj di MTV.

lunedì, febbraio 12, 2007

Il ritorno di Mickey Rooney

Per gli americani Mickey Rooney (classe 1920) è per sempre l’adolescente dei film anni ‘30, ragazzo prodigio del muto prima e in seguito protagonista della serie degli svagati film di Andy Hardy. Rooney nanerottolo con la faccia da irlandese (in realtà è di origine scozzese), innocuo rubacuori dell’America incantata prima della seconda guerra mondiale in un mondo alla Norman Rockwell, fatto di valori semplici e genuini come la torta di mele. Insomma, Rooney è stato icona del cinema hollywoodiano sognante e assolutamente cazzone, quello del disimpegno alla buona e dei bravi ragazzi che incarnano l’ottimismo a stelle e strisce. Ora ritorna sul grande schermo in una parte tagliata su misura per lui nello strampalato Una Notte al museo, dove, invecchiato e sfatto ma con un sano lampo di follia negli occhi, fa la parte di un custode dall’uppercut facile, irlandese e rissoso fino al midollo. E il film è degno di lui: divertimento per famiglie che pare uscire dalla Hollywood dei tempi d’oro, quella delle commedie senza parolacce e con il lieto fine garantito, a metà tra Frank Capra e gli eroi in diretta dal Radio City Music Hall, immortalati da Woody Allen in Radio Days. Insomma il piccolo Mickey mette il suo sigillo su un film tipicamente neoclassico, autentico gioiello anni ‘40 (con il medioriente al posto dei musi gialli e dei crucchi?), ottimo per passare un paio d’ore in allegria. Chiudo con una curiosità: Rooney era apparso in versione animata in una puntata dei Simpson (quella del film sull’Uomo Radioattivo): la sua impronta nella storia dell’animazione l’aveva però forse già messa. Narra la leggenda che un certo Walt Disney al momento di dare il nome a un topo destinato a divenire celebre avesse in mente proprio Rooney, da cui il nome Mickey. In realtà questa storia pare averla messa in giro il diretto interessato, quindi non è affidabile al 100%. Un dato inoppugnabile della vita di Rooney comunque rimane: i suoi otto matrimoni, di cui uno con la divina Ava Gardner. Basterebbe questo a garantirgli un posto nel mito.

venerdì, febbraio 02, 2007

Non proprio tutti gli uomini del presidente

A Matteo Bordone piace tanto West Wing. A me invece no. Ci sono vari fattori che determinano questa mia avversione, peraltro abbastanza blanda, verso la serie americana. Il motivo principale è sicuramente l'irrealtà che pervade tutto il telefilm. Come diceva il pallanuotista Michele Apicella, la gente non parla così. Il linguaggio usato è assurdo, tutti parlano ad una velocità pazzesca e con un'arguzia degna del Dottor Sottile o dell'Andreotti Ter. A partire dal democraticissimo presidente Martin Sheen, passando per la bordoniana Mary-Louise Parker, fino allo spazzacamino, per le sale della casa bianca si aggirano personaggi troppo finti. La realtà di questi tempi, come ho avuto già modo di dire in un altro post, è fin troppo lontana dalla finzione televisiva. Ma chi se lo immagina un Cheney a discutere con Rob Lowe per decidere il contenuto del discorso sullo Stato dell'Unione? Altro che il bel Rob, per mettere KO Dick il tramaccione basta Molly Ringwald (per restare nel Brat-Pack).
Il fatto è che West Wing vuol parlare del mondo che ci circonda da un punto di vista troppo elevato. West Wing ha avuto la s/fortuna di andare in onda a cavallo dell 11 settembre: George W. Bush, che rischiava di passare alla storia come un innocuo presidente idiota, è stato trasformato in un solo giorno in un pericoloso presidente idiota. In pochi mesi ci siamo accorti che il mondo è in mano ad un gruppetto ben equipaggiato di mentecatti. Come posso dar credito ad una visione della politica, e degli uomini che fanno la politica, come quella descritta in West Wing? Una visione in cui la più grossa macchia morale è lo spergiuro? Rumsfeld e Cheney erano così invischiati nelle lobby di petrolio e farmaci che perfino la Gabanelli dall'Italia se ne è accorta. West Wing, a differenza di quello che molti pensano, è la giustificazione, o meglio, la visione utopistica a cui gli stessi americani aspirano, della politica statunitense post 11/9: "nel mondo succedono brutte cose, noi americani cerchiamo di sistemarle a modo nostro. Ne abbiamo il diritto perchè possediamo intrinsecamente una moralità ed un senso della giustizia che gli altri non hanno". Se si guarda al panorama delle serie americane West Wing è la mente, JAG è il braccio.
Tralasciando queste elucubrazioni psychoideologiche personali, devo dire che forse il vero motivo per cui non apprezzo West Wing è stata la lettura di un articolo dedicato ai telefilm su un numero di Internazionale di qualche anno fa. In un intervista uno degli sceneggiatori della serie ammetteva candidamente che nella storia venivano volutamente lasciati dei buchi narrativi delle dimensioni del Grand Canyon in modo che il pubblico non riuscisse ad avere un riferimento lineare nella trama e si concentrasse di più sui personaggi. MA COME??? Già mi sento abbastanza stupido di mio quando non capisco di che cosa parlano e poi scopro che in realtà non lo sanno neanche loro???? Bastardi. Comunque l'idea è bella.

lunedì, gennaio 29, 2007

Il Medio è il messaggio

Caro duffo, rispondo al tuo post del 17 gennaio. Il fatto è che il criterio alto/basso è privo di senso. Credo sia un retaggio della cultura di sinistra del dopoguerra. Gran parte delle cose che piacevano nel settecento o nell'ottocento erano "letteratura bassa" o "arte bassa". Mozart era un musicista pop, secondo i canoni odierni. Shakespeare era uno Spielberg elisabettiano, che faceva cose che piacevano al pubblico, non certo Beckett. Era un uomo di palcoscenico che si guadagnava il pane senza sovvenzioni e senza terze pagine dei giornali, non uno che voleva "trasmettere un messaggio" ed entrare nei salotti giusti. L’unicità del genio è la sua capacità di toccare corde universali a prescindere dal messaggio. Oggi abbiamo un sacco di comunicatori di messaggi, con l’assegno in mano, l’agendina piena di nomi che contano e una buona capacità tecnica, ma nessuno che ci sentiremmo di mettere accanto ai grandi del passato. Altro che alto e basso, siamo nell’età di mezzo, nel regno della mediocrità generalizzata. Infatti chi stabilisce il bene e il male? Chi scrive sui giornali, nel regno del compromesso, delle amicizie e della scrittura “media”. Anche nel senso dei mass media: come diceva McLuhan, il medium è il messaggio. Potremmo dire che il medio (-cre) è il messaggio. Tra l'altro è proprio l'idea di comunicare un messaggio che ti frega: che messaggio devo comunicare per fare arte “alta”? Se comunichi il messaggio pace e giustizia sociale va bene, ma se comunichi il messaggio “godiamoci la vita”, non va più bene. Ecco allora che ci troviamo con l’ennesimo polpettone storico politico di Ken Loach che è “solo” messaggio ma si dimentica del cinema e magari abbiamo film “leggeri” ma piacevoli che vengono snobbati perché non sono cinema serio. Non esiste comunicazione senza un significato, sono le nostre interpretazioni che stabiliscono dei criteri di valore. Dickens era più simile a Stephen King o ad Ammaniti che a uno scrittore "alto". Uno potrebbe dire: certo, ma Dickens era diverso dagli altri scrittori popolari dell'ottocento. È vero, ma solo secondo i nostri criteri. Al tempo, forse, quello che leggeva Dickens o Balzac in dispense leggeva anche la bibliotheque blue o altre cose che adesso faremmo rientrare nel calderone del "popolare" o addirittura del "pulp". Questo criterio però ha il fiato corto. Hai visto infatti quello che succede. Dopo che per decenni l’intellettuale ha indossato il saio dell’impegno e dell’egemonia gramsciana, ora può finalmente dire che La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca o che Proust è noioso o che Arbasino è un paraculo. E può confessare che in realtà, tra una serata d’impegno e l’altra si è visto i film di Boldi e De Sica. Il problema, però, è che non si tirano le somme di questo discorso. Non posso accettare che un cretino che negli anni settanta leggeva solo Marx e guardava Wim Wenders ora ci dica quello che è bello e quello che è brutto. Non basta rovesciare alto e basso, occorre togliere di torno certi personaggi che vanno dove li porta il vento e ogni volta si rifanno una verginità. A tutti loro, il (dito) medio è il messaggio. Cioè un bel vaffanculo.

domenica, gennaio 28, 2007

Folle viaggio nella notte

Di Walter Moers ho già parlato qui sul blog consigliando la lettura dei suoi libri ambientati a Zamonia. Molti si sbagliano classificando ingenuamente i romanzi di Moers tra la letteratura per regazzi, in realtà si tratta di libri per adulti amanti del fantastico, nascosti abilmente dallo stesso autore in una confezione che, effettivamente, ha tutta l'apparenza delle letture per l'infanzia. Nascendo come fumettista è naturale che Moers abbia arricchito le sue storie fantastiche con centinaia di illustrazioni ed esperimenti di lettering, tanto che nei suoi romanzi il testo stesso a volte si trasforma in illustrazione. I disegni restano comunque il punto forte di questa confezione essendo sempre particolari, strambi e simpatici allo stesso tempo.
Viste queste premesse mi aspettavo che anche l'ultimo libro di Moers acquistato pullulasse di illustrazioni strane e divertenti e invece, con sorpresa, ho scoperto che non conteneva neanche una mezza figuretta disegnata da lui.
Il romanzo, come al solito edito da Salani, si intitola Folle viaggio nella notte ed ha come protagonista un giovane Gustave Doré, celebre illustratore dell'800 di cui Moers è un grande ammiratore. Le molte illustrazioni che impreziosiscono il libro risultano così essere proprio del grande artista francese, scelte con cura da Moers tra l'impressionante archivio di lavori che Doré ha realizzato. Immagino che la scelta, oltre a dimostrare la grande conoscenza del lavoro di Doré, sia stata lungamente ponderata in modo che la storia scritta da Moers si adattasse perfettamente alle illustrazioni e desse così vita ad una vicenda avventurosa e surreale. Il risultato raggiunto è una lettura molto piacevole e divertente, che fa da ottima cornice alle illustrazioni di Doré, che rimangono la vera spina dorsale del libro. Per quanto alla fine si sente comunque di trovarsi difronte ad un gioco, quasi un esercizio di stile alla OuLiPo, la sensazione è che Moers si senta realmente in sintonia con il grande maestro francese e con le sue visioni oniriche. Scrivendo questo libro Moers realizza una sorta di illustrazione scritta a mo di cornice per tutte quelle storie e sensazioni che ancora oggi fuoriescono dai disegni fantastici ed angoscianti di Doré.

mercoledì, gennaio 24, 2007

Vitus


Che bella sorpresa questo Vitus, visto al Trieste Film Festival. Del regista, Fredi Murer, avevo intercettato un delirante film degli anni ‘70, Grauzone, rarissimo esempio di film lounge svizzero: una storia di cimici e intercettazioni, in pratica la versione in bianco e nero e anarchica della Conversazione di Coppola, con musica exotica come soundtrack, interni di moquette e su tutto l’aria di lucida follia che fa grande la Svizzera. Aspettandomi qualcosa del genere mi sono dunque accinto a vedere Vitus, candidato svizzero agli Oscar, già tra i nove finalisti (purtroppo, non fra gli ultimi cinque, escluso insieme a Volver di Almodovar). Murer, però, abbandonando le tentazioni autoriali (un vero autore non ha bisogno di vezzi) e scavalcando il rischio del calligrafismo infantile, alla Tornatore, centra un film davvero poetico e visionario, di quelli da guardare pronti a sorridere ma anche a farsi commuovere. Vitus è un bambino prodigio, genio del pianoforte e dei numeri, ficcato in un mondo troppo stretto per le sue doti e alle prese con turbini sentimentali. Si sente sfruttato (in buona fede) dai genitori e incompreso dagli altri. L’unico a dargli spago è il nonno falegname, un Bruno Ganz immenso che si riscatta dai baffetti a spazzolino hitleriani di La caduta con un’interpretazione magistrale. Nonno e nipote hanno un’intesa basata sulla comune passione per il volo e per il sogno di lasciarsi dietro il peso della banalità. Tra incidenti e deltaplani a forma di pipistrello, Schumann e hip-hop in bicicletta, c’è posto per una scalata ai vertici della speculazione finanziaria, un simulatore di volo e un volo (non simulato). Poesia e fiaba si innestano senza soluzione di continuità in una storia realistica, sintonizzata sulla visione del mondo di un ragazzino che vorrebbe essere normale e che deve lasciare dietro di sé qualcosa per essere davvero consapevole del proprio talento. Si ride, si piange, ma soprattutto si vede un film girato davvero con lo sguardo da bambino: rasoterra, sulle piccole cose (la cameretta tappezzata di poster sui pipistrelli è fantastica), ma anche pronto a spiccare il volo. Insomma, piccolo grande Murer.

venerdì, gennaio 19, 2007

Strano, ma vero!

La realtà non supera mai la fantasia, a differenza di quello che scrivono i bravi giornalisti italiani nell'aprire i loro articoli, riciclando le stesse frasi fatte ormai da trent'anni. In verità, per quanto la realtà possa essere strana ma vera, certa fantasia è impossibile da superare. Prendete The Shield, la serie in cui il bravo Michael "la cosa" Chiklis dà il volto ad uno dei più bastardi personaggi che la tv abbia mai visto. Vic Mackey è una specie di Kingpin col distintivo che, pur di mantenere tranquillo il suo quartiere, tiene le redini di una vera e propria associazione a delinquere interna al distretto, che ammazza e spaccia tra un'arresto ed una contravvenzione. Ora, una finzione così pompata è praticamente impossibile da superare, tranne forse a Medellin e Mosca. Detto questo, è abbastanza evidente che i poliziotti che sono sotto processo a Genova per i pestaggi alla scuola Diaz abbiano quantomeno ispirato gli sceneggiatori di The Shield. La nostra bistrattata realtà italiana ha, nel suo piccolo, anticipato la fantasia hollywoodiana. Alla fine però, col passare degli anni, ci siamo trovati un po' indietro e, per ridare un po' di verve alla vicenda, abbiamo messo in scena una dei più classici elementi dei legal-thriller americani: la sparizione delle prove. Le bottiglie molotov sono evaporate. Speriamo non si trasformi in un mafia-movie e che non comincino a sparire pure i testimoni.
Un'altro esempio di fantasia portata all'estremo sono le varie serie di CSI, ed in particolare CSI New York, con il perennemente sogghignante Gary Sinise (è incredibile, gli sono pure ricresciute le gambe!). Ogni volta che vedo un episodio di questa serie, mi chiedo come la gente possa dare credito all'idea di un detective in completo Armani sulla scena del delitto. O a quella di dottoresse specializzate in fisicamolecolareneurobioticaelettrochimicabiologica indirizzo aggiustaggio, che evidentemente trovano pure il tempo di andare dal parrucchiere tra un'autopsia e l'altra. Me le immagino sotto il casco da Jean Louis David, intente a sfogliare svogliatamente Donna Detective Moderna e, improvvisamente, ricordarsi del dettaglio decisivo precedentemente sfuggito e che permetterà, naturalmente a manicure finita, di smascherare l'assassino.
Noi non siamo così sboroni, non esageriamo perchè se le spariamo troppo grosse si vede subito. Tipo quelli che indagano sul discepolo idiota di Ted Kaczynski. Il giorno prima hanno "elementi formidabili" contro il tizio di Azzano Decimo e poi, il giorno dopo!?, si scopre che questi elementi erano formidabili come gli effetti speciali di Guerre Stellari. Come se la perizia balistica di una pistola la facessero dopo aver allargato la canna con un Black & Decker trasformandola in un bazooka.
Per concludere devo dire che ci sono anche casi in cui la fantasia è a livelli così bassi che è difficile non calpestarla. Prendete i quesiti polizieschi della Settimana Enigmistica, a risolvere i difficilissi cimenti del nostro amico Leo o del comissario Parix ti viene la nostalgia per il tenero Giacomo (o dovrei dire Der kleine Herr Jakob).

venerdì, gennaio 12, 2007

DuffoCiv CCG

Ciao, sono duffogrup e sono un videogiocatore. Sono dipendente dai videogames da parecchi anni, da quando giocavo assieme ai miei fratelli a Pong sulla tv in bianco e nero per mezzo di una scatoletta bianca piatta (e non era Apple!) che andava a pile, con attaccati due rudimentali joistick neri a manopola. Poi venne il Commodore 64. Il più grande personal computer degli anni '80 col suo bel registratore e centinaia di cassette di giochi da caricare. Da quando posseggo un PC la mia dipendenza è diventata cronica tanto da rendere più volte la vita impossibile alla mia famiglia. Ricordo quando la pazienza di mia madre è esplosa mentre giocavo a Theme Hospital all'ennesima richiesta del banco accettazione "Un dottore è atteso in chirurgia", oppure in piena notte mentre giocavo a GTA III con la PS2 (prestata) facendomi inseguire per ore dalle auto della polizia a sirene spiegate.
Da diverso tempo i giochi che preferisco sono quelli strategici a turni, alla Civilization insomma. In questo periodo mi sta intruppando Civ IV, che se non è il gioco perfetto poco ci manca. Come al solito poi mi sono subito buttato sulla possibilità di modificare vari aspetti del gioco, cioè di creare i cosiddetti mod. Civ IV in questo senso è unico, nei limiti degli aspetti generali del gioco si può fare praticamente tutto, solo con un po' di pazienza.
Forse è proprio quest'aspetto artigianale che avvicina virtualmente questo genere di videogiochi a quelli coi soldatini che si faceva da piccoli, quando un marines senza un braccio non lo buttavi ma lo facevi tranquillamente diventare un eroe veterano di mille battaglie.
In questi giorni poi ho deciso di unire questa passione con l'interesse per i giochi di carte collezionabili (CCG), quelli alla Magic the Gathering per intendersi. A Magic ho giocato per diverso tempo sia con le carte reali sia in internet e, pur non codividendo alcuni aspetti del gioco di cui magari parlerò in un altro post, mi sono sempre divertito e arrabbiato un sacco. Comunque dicevo che unendo questi due interessi ho deciso di creare un gioco di carte vagamente ispirato a Civilization, DuffoCiv e di inserire periodicamente nel blog le immagini delle carte e le regole per giocare. Il beta-testing del giochillo sarà affidato al maestro.Perboni, noto beta-tester a livello mondiale di giochi di carte, e quindi unico responsabile per eventuali ritardi ed errori.

sabato, gennaio 06, 2007

Occhi di Gatti

Fabrizio Gatti, cronista d’assalto dell’Espresso, ha colpito ancora. Dopo essersi finto albanese per sbarcare in Italia, immigrato clandestino per farsi rinchiudere in un centro di permanenza, uomo di fatica per tirar su frutta e verdura tra i forzati del lavoro nero in Puglia e giornalista per entrare impunemente nella redazione dell’Espresso, il Gatti ha realizzato l’ennesimo scoop. Si è infatti camuffato da uomo delle pulizie per portare alla luce le magagne (tra l’altro ben note) del Policlinico Umberto I di Roma. Eccolo quindi, ramazza in mano, vagare in corridoi degni del Regno di Von Trier, tra angoli puteolenti e scorie tossiche, sfidando virus mortali e sotterranei catacombali. La cosa incredibile è comunque che nessuno lo riconosce, anche se la sua faccia, grazie ai numerosi reportage en travesti è ormai piuttosto nota. Anche perché la sua idea di travestimento è quella di essere semplicemente se stesso, con la sua faccia un po’ così, a metà tra l’indimenticato Hristo Stoichov e l’idea di albanese che hanno le vecchiette e i lettori di Libero. Possibile che per essere albanese, immigrato clandestino e ramazzaro all’ospedale si debba avere la faccia da gaglioffo e una fronte che farebbe la felicità di ogni frenologo? La vera impresa di Gatti dovrebbe essere qualcosa del genere “Inviato dell’Espresso si finge Lord Ciambellano e irrompe nella riunione della classe dell’84 di Eton” oppure “Fabrizio Gatti si intrufola tra gli esponenti del Potere Ariano” o ancora “Fabrizio Gatti si traveste da Harry Potter e porta alla luce i retroscena torbidi di Hogwarts”. O il massimo, “Non è Philippe Daverio, è Fabrizio Gatti!”.

mercoledì, gennaio 03, 2007

La Babele delle biblioteche

Il Corriere della sera, citando il caso di un software per il monitoraggio prestiti usato in America, scopre che le biblioteche buttano via classici del passato per lasciar spazio a Grisham e Cussler e compagnia bella. Bella scoperta: anche in Italia si segue un principio analogo (anche se, per mancanza di software dedicati, il buon senso dei bibliotecari impedisce che D’Annunzio e Gadda finiscano al macero). Ma qual è lo scopo di una biblioteca: conservare classici a futura memoria o imbottire i propri scaffali di best seller richiestissimi dei quali forse fra dieci anni non si ricorderà più nessuno? Oppure deve conservare i libri di difficile reperibilità lasciando che l’ultimo Camilleri il lettore se lo compri (con spesa modica, se pensiamo quanto le persone spendono per una cena o per un maglione). Forse occorrerebbe introdurre un criterio di memoria a lungo termine. Proust e Melville oggi saranno anche meno richiesti di Faletti, ma fra cent’anni, ci sarà ancora qualcuno che li leggerà. Forse la soluzione sarebbe quella di avere bibliotecari competenti che fanno le scelte sulla base di un’osservazione attenta delle uscite. Il problema non è infatti lo scontro tra Flaubert e Harry Potter, ma l’acquisto in serie di volumi – da Bruno Vespa alla Litizzetto – che con una biblioteca in fondo non hanno niente a che vedere. Fate un prova: qualcuno ha mai riletto un libro di Vespa dieci anni dopo la sua uscita? Sono gli instant book a rubare spazio a libri che, pur non essendo capolavori, sono comunque prodotti passabili. Allora ben venga anche Faletti, ma se proprio non c’è spazio, buttate, ve ne prego, i libri di Piero Angela di divulgazione scientifica degli anni ottanta! A quando la raccolta completa, con rilegatura in pelle, di Torre di Guardia?